Finalmente “Un litro di lacrime” è stato pubblicato in Italia!
Il diario di Aya Kitō, una ragazza giapponese che, nel pieno dell’adolescenza scoprì di avere l’atassia spinocerebellare – una malattia neurologica mortale – è stato pubblicato in milioni di copie in Giappone, ispirando film e serie TV.
Da noi invece al massimo ci siamo potuti accontentare di una traduzione su un blog italiano – purtroppo molto incompleta (sono solo le prime due pagine del libro) oppure di un’altra traduzione in inglese… ma che però è stata fatta da un fan cinese, basandosi una traduzione in cantonese non ufficiale. Non me ne abbia chi ha fatto il gran lavoro di traduzione nel suo tempo libero, ma ho un po’ paura che nei passaggi tra giapponese => cantonese => mandarino => inglese magari si perda qualche sfumatura nei discorsi.
…in realtà però una traduzione in italiano c’era, disponibile online da anni, ma non se n’era accorto nessuno. Caterina Zolea, la traduttrice, come tesi di laurea presso la Ca’ Foscari di Venezia ha scelto proprio questo diario – con la tesi che è disponibile proprio qui: http://dspace.unive.it/handle/10579/2351
La tesi, come il libro, è interessantissima, si discute il background, la società giapponese dell’epoca, il fenomeno che è esploso in Giappone nel 2006 dopo l’uscita del dorama (che è molto diverso dalla storia vera, settato “tearjerker a 1000” per far strappare più lacrime, che però è stato un successo clamoroso in Giappone e anche fuori, con i fansub… anzi, la traduttrice, nella propria tesi dice di essere stata spinta alla lettura di questo diario proprio grazie ai fansub), le opinioni sulla traduzione per finire con la sua prima bozza della traduzione.
L’edizione mi pare eccezionale: una bella carta al tatto, con l’interno della copertina plastificato, per farlo durare più a lungo – non ho mai visto una cosa così… o forse non ci ho mai fatto caso. Tutti i nomi sono scritti “alla giapponese”, ovvero prima il cognome e poi il nome e in generale tutti gli elementi “non traducibili” sono stati lasciati inalterati, per poi essere spiegati in fondo, in un glossario. Insomma, non troviamo “tagliolini in brodo” invece di ramen. Per fare un esempio concreto, a pagina 83, troviamo “gyōza” invece di ravioli.
Il diario, le cui pagine non hanno date, ma dove il tempo è solo scandito dalla descrizione delle stagioni, comincia con Aya all’età di 14 anni, e descrive le sue esperienze, la scoperta graduale dei sintomi, che diventano sempre più gravi, il fatto di diventare sempre meno indipendente, per poi venire confinata in una sedia a rotelle, infine in un letto.
Ed è veramente sconfortante passare da note come “quest’anno ho preso voti più brutti in educazione fisica, strano”, proprio all’inizio, apparentemente innocue, per poi proseguire dopo qualche anno: lei si immagina ancora in salute ma si vede tutta ingobbita allo specchio (pagina 118). O quando a pagina 136 si rende conto di non poter più camminare.
Leggeremo quidi via via che non riesce più a stare in equilibrio, poi che non riesce a cantare, non parlare a voce alta, per poi non impugnare bene la penna, scrivere sempre peggio, parlare sempre peggio.
E fa anche pensare “dall’altro punto di vista” – quando a 15 anni fu esonerata da educazione fisica alcuni compagni dissero “beata te” (pagina 17), oppure sentire “magari avessi i soldi” – molto meglio invece avere la salute! (pagina 136).
Malgrado le difficoltà però traspare sempre una speranza, come a pagina 89, dopo il trasferimento presso una scuola per disabili pensava che il saggio di danza sarebbe stato un disastro totale, poi dopo aver visto le registrazioni degli anni passati ha visto che queste attività non sono precluse ai disabili, quindi stringe i denti e dà il meglio di sé.
In coda, troviamo una lettera della dottoressa che l’ha seguita durante gli anni, dove spiega che per malattie senza cura alcuni medici giapponesi minimizzano senza spiegare bene il decorso “si dai non ti preoccupare, guarirai sicuramente” – questo l’ho notato anche nel film cinese The Farewell, dove a un’anziana cinese le viene detto “nah è solo tosse non si preoccupi” invece della reale diagnosi di tumore ai polmoni incurabile.
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